La chimica del vino affronta i cambiamenti climatici

Nel moltiplicarsi di articoli e notizie sul riscaldamento globale e sugli effetti che il cambiamento climatico può avere sulla viticoltura, mi ha colpito questa affermazione citata da un’esperta della Napa Valley: “tanti Master of Wine vi diranno che se dovessero sostenere il loro esame oggi, in particolare la prova di degustazione, non lo passerebbero mai”.

Tutto dipende dagli effetti deleteri del cambiamento climatico che vanno ad alterare il delicato equilibrio tra acidi, zuccheri e sostanze secondarie, pur senza danneggiare fisicamente i grappoli d’uva.
Si modificano odori e sapori e la riconoscibilità dei vitigni viene stravolta. Questo spiega perché indovinare varietà, annata e regione di un vino può diventare sempre più complesso.

Il clima è proprio una componente determinante del terroir, racchiude le temperature, le precipitazioni. L’aumento delle temperature va ad alterare la chimica del vino:

  • gli acini maturano più velocemente, si concentrano più zuccheri e aumenta il grado alcolico del vino
  • l’acidità diminuisce e anche la freschezza
  • sopra i 40° la fotosintesi viene bloccata e la vite entra in stress, determinando una conseguente ossidazione degli aromi, dei precursori dei profumi e dei tannini.

Vini “più ubriachi” – con un grado alcolico più alto – possono risultare all’assaggio anche più speziati, tanto da far scambiare per Zinfandel un Cabernet Sauvignon.

Se il problema fosse solo per l’equilibrio tra zuccheri e acidi, basterebbe anticipare la vendemmia, ma questo non permetterebbe di immagazzinare tutti quei componenti secondari che conferirebbero ad ogni vi-no dei caratteri identitari.

Si è riscontrato che in alcune zone più tipiche della Toscana, come per esempio a Montalcino, si è passati a vendemmiare il Sangiovese molto prima, rischiando una maturazione non perfetta, con problemi a livello fenolico, con alcol sempre alto e di non ottenere vini equilibrati.

Negli ultimi vent’anni si sono ridotte le superfici vocate ad una buona viticoltura, portando alla produzione di vini spesso alcoolici, molto concentrati e che sono completamente all’opposto rispetto alle esigenze del mercato.

Non è solo la chimica del vino a subire profondi stravolgimenti: in base ad uno studio della Coldiretti, i cambiamenti climatici favoriscono la diffusione di malattie, tanto da aver ridotto di 1/5 la redditività dei grappoli. Ed ecco che la ricerca italiana diventa capofila in Europa nelle strategie del New Green Deal, un progetto di nuove biotecnologie di miglioramento genetico per rendere le viti più resistenti agli attacchi dei funghi e della siccità e anche maggiormente adattabili ai suoli che diventano più calcarei o salini, il tutto senza l’inserimento di DNA estraneo alla pianta.

Una start-up italiana fondata nel 2014 da alcune cantine leader del vino italiano, in collaborazione con la Facoltà di Agraria dell’Università di Milano, sostiene la ricerca di una nuova generazione di portainnesti caratterizzati da una straordinaria capacità di resistenza agli stress idrici e alle temperature eccezionali di questi ultimi mesi. Questi particolari portainnesti – definiti “a M” – inducono la vite ad un uso attento dell’acqua, che consente di non interrompere l’attività fotosintetica in condizioni di stress elevato, risparmiando nei consumi idrici e nel rispetto della sostenibilità economica e ambientale.

Ancora una volta la comunità scientifica è divisa: c’è chi si dichiara ottimista affermando che “il nostro ritmo di adattamento è più veloce di quello del cambiamento climatico”, c’è chi invece sostiene che il clima sta cambiando molto più velocemente di quanto lo stia facendo la tecnica agricola. 

Sicuramente le colture dovranno seguirlo e la viticoltura dovrà migrare.


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